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martedì 1 aprile 2008

Art Spiegelman

Spiegelman "Americani
puritani e pornografi"

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Un nuovo album dall’autore di Maus "Non è da leggere seduti alla toilette"

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SYLVAIN CYPEL

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clip_image005NEW YORK
Ama enormemente questa frase di Miles Davis: «Prima suono, poi vi spiego...». L’autore di Maus - questo straordinario racconto allegorico della Shoah che ha al centro la deportazione di suo padre ad Aushwitz - pubblica ora Breakdowns, un nuovo fumetto costruito intorno a disegni giovanili, con un’introduzione disegnata e una postfazione scritta. Lui preferirebbe che i lettori cominciassero con il leggere questa sua nuova opera appena presentata al Salon du livre di Parigi.
In realtà Art Spiegelman vorrebbe davvero soltanto «spiegare».Breakdowns è «difficile, complicato». Teme che i lettori restino disorientati. È un fumetto «distruttivo», maturato in un’epoca (1972-77) in cui, sprofondato nelle sue ricerche, pubblicava soltanto su riviste underground. Vi si ritrovano le ossessioni della giovinezza che non l’hanno mai lasciato e che Maus, la sua opera più narrativa, nascondeva anche se solo in parte. Cos’è un artista? Cos’è il pensiero, la memoria, la percezione? Che relazioni ci sono tra loro? «Nel fumetto c’è più pensiero che inchiostro», afferma.
Ci riceve nel suo studio di Manhattan. «Esco poco. Non si può più fumare da nessuna parte!». Dice che il divieto di fumo, che ormai si estende anche nei condomini, è dovuto al puritanesimo americano. Negli Anni 70 aveva pubblicato Prince Rooster, un libro per ragazzi basato su una favola hassidica del Rabbi Nachman di Breslavia. Numerosi editori glielo avevano rifiutato perché l’eroe vi compariva nudo. Le librerie lo esponevano soltanto nella sezione riservata agli adulti. Il corto circuito puritanesimo-pornografia, spiega Art Spiegelman, è una specialità anglosassone. «La nostra cultura popolare è situata grosso modo tra i seni di Janet Jackson e il clitoride di Paris Hilton», dice. «Ma far vedere un pene in un fumetto, no, non si può! Eppure siamo costretti ad ascoltare polemiche aberranti sulle cellule staminali o Darwin».
Breakdowns, il fumetto come esperienza artistica e autobiografica per quest’uomo di 60 anni. Non una storia ma frammenti, schizzi, strizzatine d’occhio. Le scintille volano per ritornare all’essenziale. E di colpo, su un palco consacrato a una disputa infantile e apparentemente anodina, si ritrova adulto. Il commento di un disegno: «Nel 1968 mia madre si è uccisa. Senza lasciare una parola. È strano il modo in cui funziona lo spirito... Avevo dimenticato il suo suicidio...». Come suo padre, anche lei era sopravvissuta ad Auschwitz.
Non anticiperemo niente della nuova opera. Se ne avrebbe a male. Bisogna lasciare che il lettore «innanzitutto possa leggere» come lui è diventato disegnatore: le sue aspettative, le frustrazioni, gli exploit concettuali. Vi si ritrovano anche gli abbozzi di Maus, pubblicati nella rivista Funny Animals. Art è felice che questo libro sia pubblicato, per far vedere che Spiegelman non è Maus. Ma al tempo stesso non cerca di disfarsene: «Sono 13 anni della mia vita». Maus era dentro di lui prima e continua a esserci.
Spiegelman ci parla di Israele, dove ha avuto «le maggiori difficoltà» con questo fumetto. Il libro è stato tradotto in 30 lingue, compreso il pashtun afghano. Ma solo il primo volume è apparso in Israele. «Ho avuto dei problemi con l’editore», spiega. «C’è una visione specifica israeliana dell’Olocausto. Ora, Maus è l’opera di un ebreo della diaspora. Parlare di Shoah senza evocare Israele, a loro non sembrava possibile». Lui stesso negli Stati Uniti è considerato un anti-israeliano. È una questione che lo annoia.
«Io sono a-sionista, che è come dire agnostico. Sono a favore dell’esistenza di Israele, ma questo Stato ha commesso e commette dei crimini contro la popolazione della zona. Non è il solo. Ma cosa volete? Essendo ebreo dovrei essere meno critico verso Israele che nei riguardi del mio paese?». Nel 2002, dopo aver sbattuto la porta del New Yorker, la rivista in cui lavorava da più di 10 anni e della quale aveva costruito l’identità grafica più corrosiva. Perché? «Per protesta contro l’asservimento dei media» al potere e alla verità di Stato americana dopo l’11 settembre. Sua moglie, francese, ne è tuttora l’art director.
Preferisce però tornare velocemente alle riflessioni intorno a Breakdwns. «In fondo, i primi fumetti sono stati le vetrate delle cattedrali». La costrizione dello spazio in pagina fa sì che i fumetti siano più simili all’architettura che alla letteratura o al cinema, dove invece si può dare all’opera il ritmo preferito. Lui ha voluto liberarsi da questa schiavitù. «È successo con mio padre. Non sono mai riuscito a fargli raccontare la sua vita in modo lineare. Parlava di Aushwitz e passava a un episodio del 1950, per poi tornare al ghetto e alla deportazione...». Racconto, memoria, frammento, struttura: è su questo insieme che Art Spiegelman lavora. «Mio padre mi ha insegnato come riempire una valigia al massimo. Era indispensabile per scappare dai nazisti. E così mi ha insegnato a dare una struttura ai fumetti». Su una striscia nessuno spazio è inutile. Breakdowns è incredibilmente denso di riferimenti, in senso vero e nascosto.
Lui che rivendica la sua origine nella cultura popolare non accetta alcuna concessione. «Ho voluto realizzare dei fumetti da leggere con un segnalibro, non seduti alla toilette. Se Claude Lanzman avesse voluto fare un film per il grande pubblico, Shoah durerebbe 80 minuti. Invece dura 9 ore ed è un’opera immensa, senza una sola immagine d’archivio». Questo gli sembra fondamentale.
Art Spiegelman sta lavorando a due progetti, un libro per bambini e le vetrate per una scuola newyorkese di belle arti: «Essere artisti significa dare forma a ciò che si pensa, che si sa e si sente». Noi prendiamo.
© Le Monde
Nazisti gatti, ebrei topi
Spiegelman deve la sua fama principalmente a un’unica opera, Maus, un romanzo (auto)biografico in fumetti pubblicato tra il 1973 ed il 1991, dove si narra la storia del padre, Vladek Spiegelman, un ebreo polacco sopravvissuto alla Shoah.
Maus usa la forma di fumetto allegorico (i nazisti sono gatti, gli ebrei topi, ecc...) per dare corpo all'essenza della narrazione spogliandola degli elementi di identificazione e lasciando l'essenza della dimensione tragica. Di questo romanzo - che nel 1992 gli ha fruttato uno speciale premio Pulitzer - Umberto Eco ha detto: «È una storia splendida; ti prende e non ti lascia più».

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